Ca' Rezzonico

Ca' Rezzonico

Percorsi e collezioni

Collezione Ferruccio Mestrovich

La Collezione Ferruccio Mestrovich presenta un nucleo di dipinti, tutti di notevole qualità, tra i quali si segnalano, oltre a due opere di Iacopo Tintoretto ben note in letteratura – una paletta d’altare estremamente suggestiva per l’intensità della figurazione e un austero ritratto – la luminosa e intima Sacra Conversazione di Bonifacio de’ Pitati; inoltre, altre opere di Benedetto Diana, Lelio Orsi, Jacopo Amigoni, Francesco Guardi e Alessandro Longhi, due soprarchi di mano di Benedetto Carpaccio, figlio e seguace di Vittore e una tavoletta di Cima da Conegliano. “Dono a Venezia, in segno di affetto e riconoscenza e a ricordo della mia famiglia, la mia piccola raccolta di dipinti antichi costituita in prevalenza di soggetti sacri, a me più congeniali e appaganti. In questa incantevole città adottiva i miei cari ed io, esuli con molti conterranei, ci siamo felicemente inseriti e abbiamo trovato il rifugio ideale dopo che la natia ed amatissima Zara, la città dalmata, veneta ed italianissima, venne straziata e quasi interamente distrutta nel corso della seconda guerra mondiale… Questa mia donazione vuole anche contribuire al ricordo perenne di questa pagina tristissima della nostra storia recente, che dovrà sicuramente essere rivisitata e riscritta…” così Ferruccio Mestrovich motiva il gesto nobilissimo che arricchisce ulteriormente Ca’ Rezzonico, i Musei Veneziani e la città intera. I Mestrovich appartengono ad un’antica famiglia dalmata originaria di Zara e risiedono a Venezia dal 1945. Il capofamiglia, Aldo (1885 – 1969) fu perseguitato durante la dominazione austriaca per il suo patriottismo di italiano; il suo patrimonio è stato confiscato dal governo iugoslavo e mai restituito. Suo figlio Audace ha esercitato a lungo a Venezia la professione di avvocato. Ferruccio, il figlio minore, appassionato studioso della pittura veneta antica, è il generoso donatore di questa preziosa raccolta, le cui attribuzioni sono il frutto delle sue ricerche e dei suoi studi. Di essi si sono giovati innumerevoli volte non pochi studiosi nella pubblicazione di dipinti di questa e di altre collezioni. 

 

Il percorso e le opere

 

 

1. Benedetto Diana (Venezia, 1460 ca. – 1525)
Cristo benedicente (olio su tavola, 60 x 52,5 cm)

I contorni della figura e dell’opera di Benedetto Rusconi detto il Diana sono ancora alquanto incerti. Poco si conosce, in particolare, della sua fase formativa e della sua attività giovanile: scartata l’ipotesi di un suo alunnato presso Lazzaro Bastiani e ritenuto sostanzialmente poco influente un rapporto iniziale con l’ambiente conservatore dei Muranesi, anche in ragione dell’apertura ad uno spregiudicato sperimentalismo che risulta dalle sue opere, la tendenza della critica più avveduta è quella di ritenere il giovane pittore interessato soprattutto alle realizzazioni di Giovanni Bellini, che intorno al 1480, negli anni in cui dobbiamo presumere che Benedetto iniziasse la propria attività in forme indipendenti, era ormai giunto a definire il proprio linguaggio assolutamente rivoluzionario; e se è pur vero che il Diana non giunse forse mai a comprendere completamente la portata delle innovazioni belliniane, è altrettanto vero che un giovane artista dotato che iniziava la propria carriera in quel particolare momento non poteva non dimostrare uno specifico interesse per il maggior protagonista del mondo artistico veneziano del momento. Supporta tale ipotesi l’esame di quella che è ritenuta l’opera più arcaica del Diana, il Cristo trasfigurato già a Miami e ora conservato nella collezione Kress a Coral Gables, che costituisce una evidente derivazione, sia pure con qualche variante, dalla simile immagine che appare nella tavola con la Trasfigurazione dipinta da Giovanni Bellini proprio sul 1480 e conservata al Museo di Capodimonte a Napoli. E’ un’opera, questa del Diana, assai interessante, che evidenzia come il giovane pittore abbia meditato attentamente sulle novità della pittura veneziana più recente, sulle opere del Bellini, ovviamente, ma anche su quelle di Antonello da Messina e del Carpaccio. Caratteristiche del tutto simili – sia pure espresse con un fare pittorico di gran lunga più evoluto e raffinato – dimostra la tavola Mestrovich, che potrebbe costituire il passo successivo nella maturazione del linguaggio di Benedetto, verso un affinamento stilistico di notevolissima qualità espressiva; fermi restando i presupposti di cui si è detto, parrebbe aggiungersi qui anche un interesse ulteriore per le opere degli artisti nordici attivi a Venezia sullo scorcio del secolo. In questo senso, il confronto con l’immagine firmata del Cristo benedicente prodotta dal Diana alla fine del secolo e ora conservata alla National Gallery di Londra risulta molto stimolante: del tutto simili sono infatti l’impostazione della figura, evidentemente derivata dallo schema divulgato a Venezia da Antonello, l’attenzione per la resa puntuale di ogni particolare, secondo la tradizione nordica, l’uso della luce radente, di memoria carpaccesco-belliniana. Dunque, sulla base di questi riscontri, l’ipotesi di inserire anche la tavola della collezione Mestrovich nel catalogo pittorico di Benedetto Diana, con una cronologia prossima a quella dell’esecuzione della simile immagine ora in Inghilterra, pare – allo stato attuale delle conoscenze – quella più accreditata.

2. Benedetto Carpaccio (Venezia, ante 1500 – Capodistria, post 1560)
Angelo annunciante e Vergine annunciata (olio su tela, ciascuna 99 x 103 cm)

Come risulta dalle ricerche esperite dallo stesso Mestrovich, cui ha contribuito anche Lino Moretti, i due spicchi costituivano in origine il completamento della pala raffigurante La gloria del nome di Gesù e Santi, opera di Benedetto Carpaccio, figlio del celeberrimo Vittore, firmata e datata 1541, esposta in origine su un altare ligneo nella chiesa di Sant’Anna a Capodistria, rifatto poi in forme diverse nel corso dell’Ottocento. Testimonia infatti lo storico locale Baccio Ziliotto (1910) che “il quadro (la pala di Benedetto) era completato in origine da tre altri scomparti che ora sono passati nella collezione Basilio: in due settori laterali era rappresentata una Annunciazione, in uno scomparto superiore il Padre Eterno. Ma in un periodo di meno intelligenti cure furono levati per accomodare il dipinto al nuovo altare, sostituito a più antico e più robusto di legno”. Tale notizia è confermata anche dal Santangelo nel suo Inventario delle cose d’arte esistenti nella provincia di Pola, dato alle stampe nel 1935. Lo scomparto con la figura del Padreterno, “visto di fronte, con i capelli lunghi e la barba fluente, tra nuvolette di cherubini purpurei, (mentre) benedice colla destra, e tiene nella sinistra al sfera del mondo” è apparso alla Prima esposizione d’Arte Antica organizzata nel 1924 dal Circolo Artistico di Trieste per opera di Antonio Morassi (dal catalogo della mostra è tratta la descrizione dell’opera, che non è illustrata; dalla stessa fonte si ricava che esso misura 77 x 90 cm). Del comparto col Padreterno non è nota la collocazione attuale; viceversa, i due spicchi, che non furono esposti alla mostra, sono successivamente passati dalla collezione Basilio di Trieste a quella di Dionisio Brugnera di Treviso, da dove sono stati rilevati dal Mestrovich. Non v’è dubbio, dunque, che per la loro accertata attribuzione e sicura cronologia, le due tele costituiscano un sicuro caposaldo per la ricostruzione del catalogo pittorico del figlio e collaboratore di Vittore. E’ evidente, in esse, lo stretto richiamo ai moduli stilistici e figurativi del padre: in particolare, la figura della Vergine annunciata deriva da un modello pittorico di Vittore, utilizzato anche da Palma il Vecchio nella tavola ora conservata a Berlino. In più, notevole è la partitura cromatica, giocata sui toni intensi dei colori, e l’uso di una illuminazione radente, che esalta la nettezza dei profili della figure e dei panneggi. Certo, una pittura sicuramente “ritardataria” rispetto ai grandi esempi della pittura veneziana coeva; purtuttavia di interessante livello qualitativo, nella puntuale descrizione delle figure e delle cose, nella qualità del colore e nella capacità di espressione del sentimento religioso.

3.Giambattista Cima da Conegliano (Conegliano, 1459/60 – 1517)
Cristo passo (olio su tavola, 22 x 15,5 cm)

Non v’è dubbio che questo piccolo dipinto eseguito ad olio su tavola costituisse in origine la portella del tabernacolo dell’altare di una chiesa sconosciuta. Proviene dalla collezione Correr ed è accompagnato da un’attribuzione a Cima da Conegliano fornita su richiesta degli allora proprietari della tavoletta dal professor Giuseppe Botta, ispettore della Gallerie veneziane, risalente al 19 luglio del 1886. E tale assegnazione a questo pittore di origine trevigiana, ma a lungo attivo a Venezia, dove ottenne grande successo soprattutto per le sue immagini religiose, ambientate in ampi e rasserenanti paesaggi e caratterizzate da un colorismo assai vivo e luminoso, ha trovato concordi i numerosi critici che, in tempi più recenti, hanno avuto l’occasione di esaminare direttamente il dipinto, rimasto peraltro finora inedito. Non sono rare, nel catalogo pittorico di Giambattista Cima, piccole immagini di soggetto religioso; in particolare il tema del Cristo passo è stato più volte affrontato dal pittore, e di questo suo interesse resta prova nella tavoletta conservata al City Art Museum and Art Gallery di Birmingham, che, egualmente a quella di proprietà Mestrovich, fungeva in origine da portella di un tabernacolo d’altare. Anche se ridotta nelle dimensioni e pesantemente ridipinta, la piccola opera conservata nel Museo inglese presenta caratteristiche pittoriche di notevole livello, le stesse che – fatto salvo il migliore stato di conservazione – si ritrovano in quella veneziana. Ma decisivo per ammettere la tavoletta Mestrovich al catalogo di Giambattista è il confronto con un’altra opera di eguale soggetto da lui dipinta, il comparto centrale della cimasa del polittico conservato nella chiesa del convento di San Francesco a Miglionico, presso Matera, dove è giunto alla fine del Cinquecento, essendo stato comprato a Venezia da don Marcantonio Mizzoni. Stupefacenti appaiono infatti le identità nella scrittura pittorica, nella modellazione del corpo abbandonato, perfino degli elementi del volto e della folta capigliatura. Il polittico è stato eseguito – come attesta la data iscritta, accanto alla firma del pittore, sul piedistallo del pannello centrale – nel 1499; la perfetta consonanza di stile tra le due opere autorizza a datare al di là di ogni dubbio anche la tavoletta veneziana allo stesso torno di tempo.

4. Bonifacio De’ Pitati (Verona, 1487 – Venezia, 1553)
Sacra conversazione (olio su tavola, 86 x 139 cm)

Questa tavola – pubblicata dallo stesso Mestrovich nel volume di studi in onore di Egidio Martini (1999) – proviene da una raccolta privata inglese. Raffigura una dolcissima Madonna che regge tra le braccia il Bambino, avendo a destra i Santi Gerolamo e Giovanni Battista intenti a meditare sulle Sacre Scritture e, a sinistra, Pietro che porge al Bambino le chiavi e una Santa martire che potrebbe essere forse individuabile in Caterina d’Alessandria. Lo sfondo si compone di un’imponente architettura ad arcate, dalle quali emergono brani di cielo luminosissimo, decorata con statue collocate entro nicchie; sull’estrema destra appare un eccezionale inserto vedutistico, con una fantastica immagine di Venezia, nella quale, tra le acque e le barene del bacino, si vedono accennati in lontananza il campanile e le cupole della basilica di San Marco. Sul pilastro all’estrema sinistra appaiono invece uno stemma nobiliare retto da un putto marmoreo (certamente quello della casata dell’ignoto committente del dipinto) ed un’iscrizione che ora purtroppo non è più leggibile. Il tema della Sacra conversazione fu assai caro a Bonifacio, che lo ripeté numerose volte: in tutti questi dipinti i personaggi, tipologicamente assai ben definiti, sono sempre raffigurati all’interno di un’atmosfera calma e serena, in un colloquio silenzioso, fatto di gesti e di sguardi, che esalta il misticismo della figurazione. Alla realizzazione di questo mondo pacato il pittore giunge con mezzi formali personalissimi, attraverso un gioco coloristico semplice e assai vivo e un taglio compositivo perfettamente equilibrato. Anche in questo caso, l’impostazione scenica dell’opera è derivata dalla tipologia che era andata affermandosi all’inizio del Cinquecento, sugli esempi di Palma il Vecchio – che di Bonifacio fu il più importante maestro – e di Tiziano; ma il carattere e il sentimento che la animano appaiono, rispetto ai modelli di quei pittori, del tutto originali. La pittura di Bonifacio si differenzia infatti da quella degli altri grandi protagonisti dell’arte veneziana del primo Cinquecento per una sua particolare musicalità coloristica, calda e dolce, giocata sul tonalismo e sul fluido accostamento delle masse colorate intrise di luce. Per quanto il percorso pittorico di Bonifacio presenti ancora delle difficoltà di definizione cronologica, pare del tutto probabile che questo splendido dipinto possa essere collocato nella seconda metà del terzo decennio, dato che evidenzia caratteri stilistici e di tecnica pittorica del tutto prossimi a quelli che contraddistinguono alcune delle sue opere fondamentali che la critica più recente ed avveduta colloca in questo torno di tempo: ad esempio, la Sacra Famiglia con i santi Elisabetta, Giovanni Battista bambino e due pastori conservata al County Museum of Art di Los Angeles e, ancor di più, la Sacra Conversazione con Santi del Museo del Louvre.

5. Jacopo Tintoretto (Venezia, 1519 – 1594)
Cristo deposto sostenuto da San Giovanni e dalla Maddalena alla presenza di due committenti (olio su tela centinata, 140 x 70 cm)

La pala, evidentemente destinata ad una piccola cappella privata della famiglia i cui membri sono raffigurati nel dipinto, è stata resa nota dal Pallucchini nel 1969 e la sua attribuzione a Jacopo è stata unanimemente accolta dalla critica. Per quel che riguarda la datazione, del tutto condivisibile appare quella proposta dallo stesso Pallucchini, che ne colloca l’esecuzione tra il 1559, quando Jacopo dipinge il Miracolo del paralitico per la chiesa veneziana di San Rocco, e il 1562, anno che appare iscritto nella tela con Cristo e il Fariseo del Museo Civico di Padova: strettissime risultano infatti le consonanze stilistiche e figurative con queste opere e con le altre eseguite dal Tintoretto nello stesso torno di tempo. Ma al di là dell’indiscutibile autografia del dipinto, occorre soprattutto sottolinearne la qualità eccezionale della resa pittorica e l’efficacia stupenda nella resa dei sentimenti. Jacopo è abilissimo nel superare i vincoli posti dalle dimensioni obbligate del dipinto, dando una particolare rilevanza al corpo ormai senza vita di Cristo, abbandonato in avanti, quasi in diagonale; e questo gli permette di inserire, a destra, le figure dei donatori e della Maddalena, prove superbe delle sue splendide doti di ritrattista. I volti di Cristo e di San Giovanni sono colti di scorcio, nella mezza ombra causata dal loro stesso movimento in avanti; i volti degli altri tre personaggi – i due committenti e la bellissima Maddalena che regge con una mano il piede destro di Cristo, portando l’altra al petto – sono invece ripresi in piena luce e descritti con puntuale precisione. L’impressione è che questa differenza non sia casuale, ma sia funzionale a sottolineare le due diverse realtà: quella del mondo della religione le due figure di sinistra, quella del mondo reale il gruppo dei tre personaggi disposti sulla destra. E’ dunque possibile che quest’opera, su cui aleggia un sentimento di profonda pena, un senso tragico di morte, cui non pone riparo la qualità luminosissima del colore, abbia un significato profondo che va al di là della mera evidenza esteriore: non escluderei infatti che in questa pala Tintoretto sia stato chiamato a ricordare un evento tragico, la morte della figlia – ritratta nella Maddalena, di cui forse portava il nome – della coppia di anziani personaggi che meditano straziati sulla figura cerea del Cristo appena deposta dalla Croce.

6. Jacopo Tintoretto (Venezia, 1519 – 1594)
Ritratto di Francesco Gherardini (olio su tela, 70 x 60 cm)

Questo magnifico dipinto, certo da considerare indubbiamente uno dei più alti raggiungimenti della ritrattistica tintorettesca, è stato reso noto da Paola Rossi nel 1969; grazie alla corretta lettura dell’iscrizione che appare in alto a destra, che recita “FRANC.O GHER / JJ / NACQUE DI / XBRIO 1498 / RITRATO / 1568”, la Pizzamano (1992) ha potuto identificare il personaggio effigiato nel nobile lendinarese Francesco Gherardini, morto il 28 gennaio del 1575, all’età di 77 anni. A conferma dello stretto e duraturo rapporto esistente tra il Tintoretto e il nobiluomo lendinarese, occorre segnalare che la sua effigie appare in un’altra tela dipinta dallo stesso Jacopo, in età relativamente giovanile: la pala con La Madonna col Bambino in gloria, con i santi Francesco, Antonio e Ludovico e il donatore (Francesco Gherardini appunto) che in origine si trovava sull’altar maggiore della chiesa dedicata a San Francesco a Lendinara e che, dopo la sua chiusura al culto e l’abbattimento dell’edificio avvenuto entro il 1785, è giunta, dopo vari passaggi di proprietà, al Musée de la Ville di Narbonne, dove in passato è stata ritenuta erroneamente opera di Paolo Veronese. Nel ritratto della collezione Mestrovich il Gherardini è ripreso in un momento più avanzato della sua vita, all’età di settant’anni; l’ancora imponente figura, vestita di un abito di velluto nero su cui rapide lumeggiature a biacca definiscono i crinali delle pieghe, emerge con grande evidenza e salda plasticità dallo sfondo neutro, secondo la tipologia ritrattistica tipica di Jacopo in particolare nel corso del settimo e dell’ottavo decennio. Finemente accurata è la descrizione dei tratti del volto pensoso, reso con un colorismo caldo, sottolineato ed evidenziato dal “richiamo” costituito dal colletto bianco pieghettato che emerge dall’abito scuro.
Come giustamente sottolinea la Rossi, “l’indagine bonariamente acuta con cui il personaggio appare individuato rende l’opera partecipe di quel calore umano comune non solo ai ritratti, ma a gran parte della produzione del Tintoretto”.

7. Francesco Beccaruzzi (Conegliano 1492 ca. – 1563)
San Francesco (olio su tela, 192 x 125 cm)

Questa pala d’altare, della cui provenienza nulla è dato di sapere, ha fatto parte ab antiquo della ricchissima raccolta della famiglia Caregiani a Venezia. L’assegnazione di questo dipinto esemplare per sinteticità espressiva a Francesco Beccaruzzi si fonda sui caratteri stilistici comuni con le altre opere unanimemente riferite al pittore trevigiano, che un documento del tempo attesta essere stato presente a Treviso nel 1519, anno in cui il Pordenone dava inizio alla realizzazione della decorazione ad affresco della cappella della famiglia Malchiostro collocata nell’abside del Duomo, integrata poi a breve distanza di tempo con la pala dell’altare dipinta da Tiziano. E sono proprio Pordenone e Tiziano – assieme ad una certa influenza del conterraneo Paris Bordon – gli artisti che hanno maggiormente condizionato la formazione e lo sviluppo dell’arte del Beccaruzzi, come risulta con grande evidenza in opere quali la pala dipinta per la chiesa di San Francesco di Conegliano e ora conservata nel Duomo della stessa città, raffigurante San Francesco riceve le stigmate e sei Santi, ultimata nel 1545. E gli stessi caratteri stilistici appaiono anche nella tela Mestrovich, dove il Pordenone appare evidentemente citato nella monumentalità dell’unica, grandiosa, figura, mentre al mondo Tizianesco è facile far risalire non solo la scabra partitura naturalistica che si apre alle spalle del santo, ma anche alcune citazioni lessicali, come, ad esempio, la mano che Francesco porta al petto, pressoché sovrapponibile, nel prolungarsi anomalo delle dita, a quella della Vergine annunciata che appare nella pala della cappella Malchiostro. Ma, al di là di questo, significativi e assolutamente stringenti appaiono anche i confronti più meramente legati alla fattura pittorica della pala Mestrovich rispetto a quella di Conegliano: la tipologia allungata degli sviluppi dei panneggi del saio di San Francesco ritorna del tutto eguale in quello di Sant’Antonio; queste due stesse figure – per quanto colte in controparte – risultano praticamente sovrapponibili; in entrambi i dipinti il cielo è egualmente attraversato da sottili nubi ad andamento orizzontale, assai luminose; del tutto simile risulta il trattamento delle fronde. Tutti elementi questi che attestano – oltre alla comune paternità delle due opere – anche della loro contiguità d’esecuzione sulla metà del quinto decennio.

8. Lelio Orsi (Novellara, 1508 ca. – 1587)
Adorazione dei pastori (olio su tavola, 52,5 x 35,5 cm)

Lelio Orsi fu uno dei più singolari e fantasiosi protagonisti del manierismo emiliano e la sua articolata cultura pittorica risulta strettamente legata alla conoscenza del mondo del Correggio e del Parmigianino, oltre che dell’ambiente artistico mantovano, rinnovato dalla presenza di Giulio Romano e di quello michelangiolesco romano, che il pittore di Novellara ebbe modo di conoscere in prima persona durante un soggiorno nella città dei Papi risalente al 1554-55. Ottimo esempio della sua limitata e preziosa produzione è questa piccola tavola, rimasta finora inedita, ma ben nota agli studiosi, essendo stata esaminata ed apprezzata, tra gli altri, da Ugo Ruggeri, da Vittorio Sgarbi, da Alessandro Ballarin, oltre che da chi scrive. Essa si ispira evidentemente alla Notte dipinta dal Correggio per la basilica di San Prospero a Reggio Emilia (città nella quale l’Orsi operò a lungo) e ora conservata alla Gemaldegalerie di Dresda; ma l’interpretazione che l’Orsi fornisce di questo tema risulta assolutamente personale e di altissimo livello esecutivo. La qualità della pittura si esalta nell’acceso cromatismo che fa quasi balzar fuori le figure, per lo più colte in pose manieristicamente dinamiche, con un uso ricorrente del “contrapposto”, dall’ambientazione “finta di notte”. Nel pur ridotto catalogo delle pitture certe dell’Orsi è facile reperire dipinti utili a confermare, per le stringenti e significative analogie con la tavola di collezione Mestrovich, la sua appartenenza al pittore emiliano. Ad esempio l’Adorazione dei pastori già di collezione Podio a Bologna, dove risultano del tutto analoghi gli sviluppi dei panneggi degli abiti dei pastori, la soluzione del disegno elegantemente articolato della mani e la stessa tipologia delle teste, come quella del pastore sull’estrema destra, praticamente sovrapponibile a quella del san Giuseppe quale appare nel dipinto già Podio. Oppure la Vergine col Bambino e San Giovannino di collezione Rizzi a Sestri Levante, per la evidente e strettissima analogia nella resa del volto della Vergine. Sono tutte opere, queste, in cui la meditazione dell’Orsi sugli esempi del Correggio appare filtrata attraverso la conoscenza diretta del mondo manieristico romano, che si fa soprattutto evidente, nella sua produzione, dopo il viaggio a Roma compiuto alla metà del sesto decennio; dunque non v’è dubbio che anche l’esecuzione di questa eccezionale Adorazione dei pastori debba essere collocata in un momento sia pur di poco successivo a questo momento.

9. Jacopo Amigoni (Venezia, 1682 – Madrid, 1752)
Ritratto di giovane donna (la “debuttante”) (olio su tela, 108,5 x 84 cm)

 

 

10. Jacopo Amigoni (Venezia, 1682 – Madrid, 1752)
Ritratto di dama
Olio su tela, 109 x 85,5 cm

Questi due dipinti, eguali per dimensioni e per cifra stilistica, provengono anticamente da una raccolta privata toscana. Solo uno di essi – quello raffigurante la dama più giovane – è noto in letteratura, essendo stato pubblicato da G.M. Pilo nel 1958 col titolo di “Ritratto di una debuttante”; l’assegnazione all’Amigoni proposta in quell’occasione dallo studioso è stata accolta senza tentennamento alcuno anche da A. Scarpa Sonino (1994). Va da sé che tale attribuzione – che trova motivazioni del tutto condivisibili nella particolare eleganza della messa in scena, nella notevolissima raffinatezza degli impasti cromatici, tendenti a mettere in grande evidenza i particolari dell’abito elegantissimo, nella sottigliezza della definizione psicologica della modella e nell’eccezionale virtuosismo della resa dei tratti fisionomici (“sguardo di velluto in alabastro purissimo, toccato appena dal carnicino delle labbra” secondo la felice descrizione del Pilo) – va senza dubbio estesa anche al pendant, che ha identiche qualità. La datazione dei due ritratti è probabilmente da riferire all’ultimo soggiorno veneziano del pittore, tra il 1739 e il 1747, quando Jacopo abbandona definitivamente la città natale per recarsi a Madrid: ne fa fede l’assoluta identità esecutiva con le opere sicuramente riferibili a questo periodo, quali, ad esempio, i ritratti di Maria Barbara di Braganza, regina di Spagna, della collezione del marchese di Canossa di Verona o quello del mercante Sigmund Streit, ora a Berlino, risalente al 1740 ca. Non è possibile indicare chi siano le due donne ritratte dall’Amigoni; tuttavia assai affascinante risulta l’ipotesi avanzata dalla Scarpa Sonino che nota – nel personaggio più giovane – una “strabiliante somiglianza” con la soprano Teresa Castellini, quale appare nella tela con Il castrato Farinelli e i suoi amici dipinta dall’Amigoni a Madrid tra il 1750 e il 1752 e ora a Melbourne; la stessa studiosa sottolinea peraltro la necessità di reperire – per dare corpo a quest’ipotesi – ulteriori elementi di riscontro, soprattutto per quel che riguarda la possibilità di un incontro tra il pittore e la cantante in epoca precedente alla comune presenza a Madrid.

11. Alessandro Longhi (Venezia, 1733 – 1813)
Ritratto di Giuseppe Chiribiri (Cherubini) (olio su tela, 83,5 x 65 cm)

Il ritratto reca sul verso della tela originale un’iscrizione di grafia settecentesca (“Ritratto dell’Ab.e / Giuseppe Di / Cherubini / Alessandro Longhi / Agosto 1779”) che certifica – al di là dell’evidenza stilistica, del tutto probante in questo caso – la paternità dell’opera, la sua cronologia e l’identità del personaggio ritratto. Nella intensa attività di Alessandro Longhi sono numerosi i ritratti “borghesi”, tutti caratterizzati da una notevole felicità compositiva che si accorda perfettamente con la volontà di mettere in luce la bonaria attitudine caratteriale dei personaggi: le immagini di uomini di teatro come Carlo Goldoni, di pittori come Andrea Urbani, di professionisti come il medico Gian Pietro Pellegrini, di uomini di mare come il capitano Pietro Budinich, di prelati come il reverendo Sante Bonelli e di tanti altri vengono così a costituire un’eccezionale galleria dei protagonisti “minori” della Venezia del secondo Settecento, ripresi con una meticolosa cura nella resa dei caratteri fisionomici, delle vesti e degli elementi qualificanti l’attività e con una innata tendenza a sottolinearne in chiave positiva gli aspetti caratteriali. Ma, ancor di più, come ben testimonia il ritratto di Giuseppe Chiribiri, con una qualità pittorica di notevolissimo livello, che si qualifica per la luminosità e la ricchezza del colore e per l’eleganza dell’impaginazione. Il ritrattato – come risulta dalle ricerche effettuate dallo stesso Mestrovich, cui ha contribuito anche Lino Moretti – è un personaggio di un certo rilievo nel panorama letterario veneziano del medio Settecento. Nato alla Giudecca il 7 settembre del 1738, da una famiglia di ceto borghese, esordisce solo diciassettenne come poeta; a questo momento risale la sua decisione di mutare il proprio cognome in Cherubini. Vestito l’abito clericale, entra a far parte dell’ambiente dei Granelleschi, stringendo una duratura amicizia con Gasparo e Carlo Gozzi. Nel 1767 pubblica la sua opera principale, le “Poesie bernesche” edite da Antonio Graziosi, che recano come antiporta un’incisione derivata da un altro ritratto del poeta, egualmente opera di Alessandro, e che evidenziano la sua accesa vena polemica nei confronti dei costumi e delle mode contemporanee, tra le quali inserisce anche il teatro del Goldoni, e contro le donne e il matrimonio. Allo stesso anno risale anche una raccolta di saggi morali dal titolo “I miei pensieri”. Fattosi prete, diviene parroco dell’Angelo Raffaele e quindi rinuncia alla poesia, intraprendendo invece un’intensa attività di predicatore. Muore, poco più che cinquantenne, l’8 agosto del 1790.

 

12. Francesco Guardi (Venezia, 1712 – 1793)
Madonna vestita (olio su tela, 100 x 82 cm)

A far data all’incirca dalla metà del sesto decennio, probabilmente in coincidenza con la ripresa dell’afflusso turistico a Venezia dopo la fine della guerra di successione austriaca, Francesco Guardi ha rivolto il suo interesse prevalentemente alla pittura di veduta e di paesaggio, assai richiesta dai committenti stranieri. Ma questa nuova situazione non gli ha vietato di continuare la precedente attività di pittore di opere religiose e di storia e di ritrattista fino ad allora svolta. Tra i dipinti risalenti a questo periodo più avanzato della produzione di Francesco si può ben collocare questa rarissima immagine pittorica di quella che secondo la tradizione popolare veneziana era detta una “Madonna vestita”. Nella realtà, questo tipo di immagini – secondo una consuetudine proveniente dall’Austria oltre che dalla Spagna e che ebbe qualche seguito anche a Venezia – erano abitualmente eseguite in legno per essere portate a spalla durante le processioni religiose. Di esse resta tuttora uno splendido esempio esposto nel primo altare di sinistra della chiesa dei Gesuati, il cui trono è stato scolpito da uno dei maggiori intagliatori veneziani dell’epoca, Francesco Bernardoni (1669 – 1730), e che veniva utilizzata in occasione della processione del Rosario. Anche il dipinto di Francesco Guardi presenta una Madonna, riccamente abbigliata alla moda settecentesca ed incoronata, che reca nella mano sinistra un rosario; egualmente un rosario regge nella mano il Bambino, anch’egli vestito come un giovane rampollo della più alta società veneziana del tempo ed incoronato. Dunque evidentemente – come il gruppo ligneo del Bernardoni di cui si è detto – anch’esso era destinato in origine ad un ordine religioso particolarmente legato alla devozione del Rosario, come potevano essere soprattutto i Domenicani. La qualità pittorica della tela – a prescindere dalla sua inusuale iconografia – è notevole: la realizzazione dell’elegante ed elaborata decorazione del ricco abito della Vergine è del tutto prossima ai modi pittorici con cui è realizzata l’uniforme vestita dal Giovane della famiglia Gradenigo nel ritratto conservato al Museum of Fine Arts di Springfield, opera di Francesco risalente alla seconda metà del settimo decennio; le teste accoppiate di cherubini che fanno qua e là capolino corrispondono perfettamente, sia nelle tipologie che nel colorismo, a quelle che appaiono nella pala della parrocchiale di Roncegno, dipinta per i Giovanelli nella seconda metà del decennio successivo. Ma soprattutto splendida è la realizzazione dei particolari dei rosari, dipinti a punta di pennello con una materia luminosissima, in modi che ricordano in particolare quelli tipici del fratello maggiore di Francesco, Antonio, suo maestro in età giovanile.

 

13. Ubaldo Gandolfi (San Matteo della Decima, 1728 – Ravenna, 1781)
San Gerolamo medita sul Crocifisso (olio su tela, 117 x 96,5 cm)

La formazione di Ubaldo Gandolfi avviene a Bologna, nell’ambito dell’Accademia Clementina, con il Torelli, il Graziani e il Lelli. Qui il giovane pittore ha modo di conoscere ed apprezzare la grande tradizione pittorica locale, dai Carracci e da Guido Reni fino al Pasinelli, al Creti e al dal Sole. Nel 1760 il fratello minore di Ubaldo, Gaetano, si reca a Venezia, dove ha modo di conoscere direttamente, oltre alle opere dei contemporanei, i grandi esempi della pittura veneziana del Cinquecento, rimanendo soprattutto colpito dal cromatismo tipico di quei maestri. Non è dato di sapere con sicurezza se e quando anche Ubaldo abbia compiuto un eguale viaggio: certo però non v’è dubbio che anch’egli, a partire da questo torno di tempo, ebbe a subire il fascino del mondo veneziano, venendo attratto dalla forma e dal colore tipici di questi artisti, fino a giungere, proprio a partire da questi stessi anni sessanta, a vere e proprie sperimentazioni nelle quali mette in luce suggestioni venete. E da questo mondo deriva indubbiamente il vivido colorismo del dipinto gandolfiano di collezione Mestrovich, soprattutto evidente nel rosso squillante del manto del santo; viceversa più tipicamente legata al mondo bolognese è la forte volumetria della vigorosa figura, colta in primissimo piano, in una posa fortemente dinamica, illuminata drammaticamente da una luce radente che piove da destra, mettendo in grande evidenza il crocifisso ligneo e ponendo invece in ombra parte del volto e del corpo di San Gerolamo. Dunque, la datazione più credibile per questo dipinto può essere fatta risalire agli anni 1763-65. Nella tela gli elementi iconografici caratterizzanti il Santo sono ridotti al minimo: mancano infatti il cappello cardinalizio e il leone, suoi simboli abituali nell’iconografia corrente. Sono rimasti il Crocifisso, sui cui Gerolamo medita, e la pietra, con la quale egli si colpisce per mondarsi dai peccati della carne. Significativa è la presenza, in alto a sinistra, del breve brano paesistico, dove, sulla cima di un’erta, appaiono appena indicati, in scorcio, degli edifici, probabilmente una chiesa e un obelisco: si tratta dei simboli della salvezza eterna, cui l’uomo può giungere attraverso la vittoria sulle debolezze della carne, attraverso un percorso estremamente difficoltoso.

 

14. Paolo Scorzia
Tavoliere per il “gioco reale” (olio su tela, 86,5 x 105 cm)

Ben nota è la propensione dei Veneziani per il gioco d’azzardo, e non poche sono state le fortune familiari andate dissipate al Ridotto di Palazzo Dandolo a San Moisé – cioè nel sito che la Repubblica stessa aveva individuato fin dal 1638 come luogo deputato a questa attività – , nei casini privati dei nobili o anche, più semplicemente, nelle osterie o per strada. Numerosissime erano le tipologie dei giochi che si praticavano con le carte, con i dadi, con i tavolieri: celeberrimi sono la bassetta, il faraone, il trenta e quaranta, il biribisso, il gilè alla greca, il picchetto, il tresette, lo sbaraglino, che spesso avevano regole del tutto simili a quelli che, sia pure con nomi diversi, si praticano adesso. Il Gioco reale era un gioco ad estrazione: per praticarlo servivano un tavoliere – a volte dipinto su tavola, ma per lo più su tela (o inciso e poi incollato su tela), in modo da poter essere arrotolato, divenendo quindi più facilmente trasportabile – e un bussolotto di pedine riportanti la stessa numerazione e le stesse figure che appaiono sul tavoliere. La sua particolarità consisteva nel fatto che la puntata poteva avvenire non solo sul singolo numero, ma anche sui gruppi pari e dispari, sulle file e sulle colonne; in qualche modo, insomma, esso costituiva un’anticipazione della moderna roulette. Il tavoliere della collezione Mestrovich è impostato su 90 caselle, ciascuna recante un’immagine diversa dalle altre: figure d’uomini o di donne, stemmi nobiliari, animali, fiori, frutti. In alto reca iscritta una breve sintesi delle regole che governavano il gioco: “SE GIOCATO NON RIAVETE I DENARI, NON PUOI A ORO COPERTO, NON SI PAGA SE AVETE BARATO / GIOCANDO A LA BASETTA LE OTTO FACIE CIOUE’ N. 1,9,31,33,19,51,82,90 SONO DEL BANCO”; su entrambi i lati ha le caselle dedicate alle puntate sui gruppi di numeri (“DENTRO / PARO / DISPARO / FUORI”). La eccezionalità del tavoliere sta nel fatto che esso è l’unico di cui si conosca l’autore: nella casella numero 4, sotto uno stemma nobiliare probabilmente di fantasia, dato che non trova riscontro in ambito veneto, appare infatti, entro cartiglio, la firma “Paulus Scortia fecit”. Si tratta di un pittore altrimenti ignoto, ma certamente dotato di felice vena popolaresca e di gradevoli doti coloristiche.

 

Da ottobre 2009 la donazione è stata ampliata con altri 14 straordinari dipinti, diversi per epoca e soggetti e che comprendono un arco di tempo che va dal tardo Cinquecento ai giorni nostri.

Carletto Caliari (1570 – 1596)
Annunciazione

Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino (1591-1666)
Jaele e Sisara

Girolamo Forabosco (1604/5 – 1679)
Ritratto del doge Domenico II Contarini

Sebastiano Ricci (1659 – 1734)
Susanna e i vecchioni

Antonio Balestra (1666 – 1740)
Agar e Ismaele nel deserto

Antonio Guardi (1699 – 1760)
Lot e le figlie

Giuseppe Abbati (1836 – 1868)
Marina di Vada

Federico Zandomeneghi (1841 – 1917)
Donna con bambino seduti in un bosco

Egisto Lancerotto (1847 – 1916)
Nudo di donna

Egisto Lancerotto (1847 – 1916)
Giovane donna in piedi

Egisto Lancerotto (1847 – 1916)
Ritratto di giovane donna con rosa sui capelli

Alessandro Milesi (1856 – 1945)
Fanciulla con bambino in braccio

Emma Ciardi (1879 – 1933)
Veduta del bacino di San Marco

Pietro Marusig (1879 – 1937)
Natura morta